"Non mi piace il calcio lineare e del possesso palla. Non è il mio sport, non è la mia filosofia. Mi piace il calcio delle battaglie. La pioggia, il fango. Mi piacciono le partite dove si esce con la maglia zuppa e la faccia sporca. Con le gambe così pesanti da credere che non riuscirai a giocare per settimane. 

Mi annoia vincere in un altro modo. Quando non corriamo più degli altri, io sbadiglio. Sono felice quando le statistiche dicono che abbiamo corso 10 km più degli avversari. C'è chi obietta: bisogna correre nella direzione giusta. Okay, nella direzione giusta, ma 10 km più degli altri. E' la prima regola che ti danno da bambino: corri.

Dicono che mi agito troppo in panchina? In certi momenti da qualche parte si schiaccia un bottone dentro di me ed esce quel tipo di uomo. Altri allenatori sono dei baronetti, portano la giacca, fanno l’inchino. Io metto la tuta e schiaccio il cinque. Loro fanno suonare i violini, il mio calcio è heavy metal.

Mi seguono i top club? Hanno chiamato in tanti. Ma posso risparmiare sulle telefonate. Non lavoro per guidare la squadra più forte al mondo. Lavoro per poterla battere.”

Sembrano dichiarazioni di uomini del passato, protagonisti del football in bianco e nero, comparse di un calcio eroso dall'incedere del destino. Frammenti sbiaditi di uno sport che alberga solitario nei meandri dei cuori degli appassionati. Quelli veri.  

 

                                                                                                                                                                       

Avete appena letto, invece,  il testamento ascetico di Jürgen Klopp, emergente allenatore del Liverpool, animale da panchina, tedesco di nascita ma inglese d'adozione. In un'Italia traviata dal servilismo dei mass media e dal monopolio pleonastico perbenista; in un'Italia svilita dalla vacuità dell'antinomia Sarri-Mancini; in un'Italia vittima del buonismo e preda dell'omofilia, il virgolettato made in Germany stride come una bestemmia sull'altare rievocando vecchi sentori mai sopiti.

Il “frocio” urlato al tecnico nerazzurro in occasione di Napoli-Inter (gara poi vinta dai meneghini),  come spesso accade, doveva essere liquidato da un'invettiva di pari tenore o facendo ricorso alla semplice indifferenza. Perché il calcio è gioco maschio, che esaspera gli animi, un vettore di adrenalina che ti porta a dire cose che mai diresti in una situazione “normale”.

Qualcuno spieghi a Mancini che l'area tecnica e lo spogliatoio, da sempre, rappresentano un'enclave immaginifica, teatro di scene iconiche che rifuggono dall'ipocrisia del politicamente corretto. Se vogliamo dirla tutta il trainer di Jesi, nonostante le immediate scuse del collega, ha enfatizzato un epiteto per crearsi una verginità che non gli è mai appartenuta, cavalcando l'onda omofila Italica.

Se davvero avesse avuto a cuore le sorti dei gay si sarebbe esposto ben prima e nelle giuste sedi. Lo hanno fatto politici, cantanti, scrittori, opinionisti, studenti. Perché attendere le contumelie di un collega? Perché uscire allo scoperto solo adesso? Sarri, maestro di campagna, Toscanaccio verace, ha avuto solo la sfortuna di imbattersi nel nuovo improbabile paladino degli omosessuali, patrocinatore dell'isola che non c'è, espressione paradigmatica dell'opportunismo d'accatto.

Avesse avuto di fronte Jürgen Klopp si sarebbe tutto risolto in una bolla di sapone. O nella  morbida schiuma di una pinta di birra Tedesca

 

di Maurizio de Ruggiero

 

                  

 

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